jack the giant slayer
Inviato a vendere il cavallo e il carro al mercato e tornato con solo
dei fagioli in mano Jack è sgridato dallo zio che incautamente getta i fagioli
nell'acqua causandone l'esplosione in una pianta gigantesca che si erge fino a
sopra le nuvole. Come l'antica leggenda racconta, lì dove la pianta finisce ci
sono i giganti, una razza che si nutre di umani, già un tempo scacciata dalla
Terra e desiderosa di vendetta.
Con molta fedeltà al formato originale e un
piglio decisamente più scanzonato Bryan Singer e il suo sceneggiatore di
fiducia Christopher McQuarrie (lo stesso di I soliti sospetti, come si vede dall'ossessione per le
potenzialità di un racconto tramandato che diventa mitologia) hanno adattato la
favola Jack e la pianta di fagioli, sulla scia di quanto fatto altrove con Alice in wonderland, Biancaneve e il cacciatore e Il grande e potente Oz (ma ancora prima da Terry Gilliam
con I fratelli Grimm e l'incantevole strega, vero apripista,
anche tematico, di questa tendenza), ovvero una rilettura più adulta di fiabe
tradizionali.
È in questo senso curioso come Singer abbia deciso di rifuggire
il filtro "adulto" della produzione, mettendo in scena la favola
senza abbellimenti cartooneschi ma anzi con qualche accenno splatter (comunque
riservato ai cattivi e solo nel finale) senza snaturarne lo stile di base, come
invece avevano fatto Tim Burton e Rupert Sanders
puntando dritto al fantasy o Raimi trasformando la parabola di Oz in quella di un supereroe
da fumetto. Il cacciatore di giganti è un favolone a tutti gli effetti,
moderno nelle sembianze ma estremamente convenzionale nei contenuti, che
conferma, promuove e reitera valori tradizionali, in cui la principessa ribelle
vivrà un'avventura che funge da rito di passaggio per poi convolare alle più
giuste nozze con un poverello che si dimostrerà eroe all'altezza del ruolo
regale inizialmente preclusogli.
I livelli di lettura sono ridotti al minimo e
il target di riferimento è chiaro in ogni inquadratura dei giganti, ritratti
con capigliature buffe, atteggiamento tendente al rivoltante corredato di peti
e movenze clownesche che ne disinnescano il potenziale terrificante. Il genere
cinematografico di riferimento è allora il più prossimo alla fiaba ovvero quello
dell'avventura, confermato dal rapporto che i personaggi stringono con il luogo
esotico e sconosciuto in cui approdano e dai tentativi di creare (purtroppo
senza risultato) una visione originale di "eroismo".
Il film ha la
sua falla maggiore proprio sul versante che avrebbe dovuto essere più solido,
quello del comparto digitale. Fin dalla sequenza d'apertura (quella che con
un'animazione racconta il prologo e getta le basi del mito dei giganti) è
chiaro che non siamo di fronte ad un prodotto ricercato e le successive
sequenze che mischiano reale e digitale lo confermano. Qualche raffinatezza
come l'entrata in scena del primo gigante fatta alla medesima maniera in cui
Fumito Ueda svela il suo primo colosso in Shadow of the colossus, o qualche
inquadratura sugli umani dal punto di vista dei giganti che "davvero"
applica il 3D per quello a cui serve (rinegoziare il rapporto che gli
spettatori intrattengono con lo spazio filmico) serve a poco e soddisfa un
pubblico che il resto del film lascerà probabilmente indifferente.

















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